Tre persone nel mirino degli inquirenti, ma nessuno tra loro sembra possa aver avuto dei motivi validi per uccidere l’enologo Ulrico Cappia, il 57enne originario del Veneto – da qualche anno viveva a Roma – vittima di una esecuzione in pieno stile mafioso la sera di mercoledì 4 settembre sulle colline di Itri (Latina).
La mano è quella di un killer professionista, in grado di portare a termine un assassinio su commissione senza lasciare traccia: Cappia è stato prima ucciso con un colpo di pistola alla nuca, poi dato alle fiamme all’interno della sua Fiat 500 L. Modalità che hanno consegnato al medico legale un lavoro difficile: la salma è ancora a disposizione dell’autorità giudiziaria presso l’obitorio di Latina in vista di ulteriori approfondimenti. L’anatomopatologo Gianluca Marella deve ancora completare il verbale d’autopsia, dovendo esaminare altri elementi emersi dalle radiografie sul corpo. Ci sarebbero delle lesioni: forse la vittima è stata anche picchiata.
Dal comando provinciale dei carabinieri di Latina trapela molto poco sulle indagini: «Stiamo aspettando gli esiti dei rilievi tecnici effettuati dal Ris – dice il colonnello Giovanni De Chiara. Si tratta di stub, tabulati, bossoli rinvenuti e dna». In mano degli investigatori, infatti, i campioni di codice genetico da comparare con quello degli indiziati per ricondurre qualcuno di loro alla scena del delitto. Sul filone dell’omicidio di camorra i carabinieri non si sbilanciano. «Pensiamo volessero innanzitutto colpire l’azienda di cui Cappia era la vera anima». Anche la pista delle consulenze presso aziende campane non sembra essere fruttuosa, ma resta comunque aperta. Al momento gli indiziati sono tutti operai locali.
Uno scenario inedito: che un operaio possa avere ucciso per questioni economiche di carattere personale, in maniera così crudele e organizzata, pare al momento un movente da escludere. Cappia, appunto, era il vero manager della masseria «Monti Cecubi», dove si produce in particolare della Falanghina Igt: forse la criminalità organizzata voleva sfruttare l’azienda imponendo propri prodotti, a partire dalle uve, un marchio vero e proprio, oppure della manovalanza. Anche quella della frode alimentare è una pista che pare percorribile. Sarebbe, se così fosse, il primo delitto per il business del vino in cui da poco la camorra si è lanciata. Unico precedente, senza spargimento di sangue, è riscontrabile nell’inchiesta contro il clan Polverino di Napoli dell’estate 2013: un giro di milioni di euro quello guidato dalla moglie di un boss che costringeva molti commercianti – mettendo in piedi un vero e proprio sistema estorsivo – ad acquistare il vino sponsorizzato dai malavitosi. Un nuovo prodotto nel paniere criminale dopo la mozzarella, il caffè e lo zucchero.
Ipotesi suggestive, al momento senza riscontro. «Ci troviamo di fronte ad un vero giallo – commentano ancora dal comando provinciale». A dare man forte alle indagini, dunque, ci saranno i rilievi scientifici i cui esiti sono attesi a giorni, visto che sino ad oggi, a parte una pesante minaccia ricevuta nei mesi scorsi ed uno stato di forte preoccupazione manifestata da Ulrico nelle ultime settimane, nella vita specchiata della vittima non è stata trovata alcuna risposta ad un delitto così sanguinoso.
Michele Marangon
corriere.it
11 settembre 2013 | 15:30